Sto tentando di dirti qualcosa, non è un capriccio!

La parola “capriccio” è stata attribuita ai comportamenti dei bambini per giustificare e scagionare noi adulti. 

Esistono i bisogni del bambino e i bisogni del genitore, che spesso ahimè non coincidono.

Per esempio può succedere che il bambino voglia mettersi i pantaloni corti d’inverno, ma l’adulto, comprensibilmente, gli propone i pantaloni lunghi. Ci troviamo di fronte ad un bisogno d’indipendenza e di scegliere da sé da parte del bambino e, altresì, di fronte al bisogno del genitore di tutelare la salute del proprio bambino ed assecondare il proprio istinto protettivo. 

Se aggiungiamo anche, per esempio, la necessità del genitore di essere puntuale al lavoro… ecco che si crea il conflitto.  A questo punto l’adulto tende a classificare il comportamento del bambino come “capriccio” sentendosi così autorizzato a sminuirne l’importanza. 

I capricci, quindi, sono una cosa “da adulti” perché i bambini esprimono semplicemente i loro bisogni e quando non sono accolti vivono un senso di frustrazione e reagiscono con il pianto.

Per i genitori è comprensibile che il pianto rechi angoscia o risuoni come “disturbante” perché per gli adulti, esprimendo essi i bisogni con le parole, il pianto è sinonimo di tristezza o sofferenza fisica.

Cosa fare in queste situazioni?

Anche se a volte non risulta semplice sarebbe utile cercare di andare oltre alle lacrime del piccolo ed interrogarsi sul suo “sentire” cercando una risposta a ciò che vuole comunicare e facendogli sentire la vostra presenza rassicurante. 

E’ bene non ignorare il pianto, ma al contrario è utile accoglierlo: la durata del pianto si riduce quando gli interventi dell’adulto sono caratterizzati da maggiori comportamenti di cura (Alvarez 2004).

Si educa molto con quel che si dice, ancor più con quel che si fa, ma molto di più con quel che si è.
— S. Ignazio di Antiochia